Una delle notizie politiche “calde” degli ultimi tempi è certamente il dibattito sulla volontà del governo di riformare l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Come sapete, tale articolo oggi prevede che se un lavoratore (dipendente in un'azienda con oltre 15 dipendenti) viene licenziato senza una giusta causa, accertata dal giudice del lavoro, il datore di lavoro ha l'obbligo di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.
Il Governo ha ritenuto di riformare profondamente questo articolo dando vita e ciò ha inevitabilmente causato un dibattito tra partiti, società civile e soprattutto sindacati, molto duro. Ma non vogliamo oggi entrare nel merito della questione, vogliamo approfondire un aspetto in particolare.
Quello dell'obbligo di reintegro per un lavoratore ingiustamente licenziato è un principio sacrosanto, che bene fanno i sindacati a difendere. Non c'è motivazione di “rilancio economico” che tenga.
Ci sono però dei “dettagli” che lasciano quanto mai perplessi.
Vent'anni dopo il varo dello Statuto dei lavoratori, il parlamento approvò infatti una successiva legge, la n. 108 dell'11 maggio 1990 (“Disciplina dei licenziamenti individuali”) che, andando a integrare la legge precedente, prevedeva espressamente all'art.4:
“La disciplina di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'articolo 1 della presente legge, non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto”.
I sindacati, ed anche i partiti, dunque non hanno l’obbligo di reintegro per il dipendente licenziato da loro senza giusta causa, neanche nel caso in cui il licenziamento sia avvenuto per motivi discriminatori.
Tant'è che esiste anche un blog di lavoratori licenziati dalla Cgil che raccontano le loro storie.
Questo post non vuole essere assolutamente un attacco alle battaglie dei sindacati per la difesa del diritto al lavoro, anzi sarebbe necessaria una estensione delle garanzie a tutti i lavoratori, quelli dei sindacati compresi.
Soprattutto in questa fase è essenziale una mobilitazione generale in difesa dei diritti di tutte le persone che lavorano. Come ha ricordato giustamente qualche giorno fa, in coerenza anche con la Dottrina Sociale della Chiesa, Monsignor Giancarlo Bregantini, responsabile della Cei per il lavoro, il lavoro non è una merce (“Non si può eliminare chi lavora per motivi di bilancio”). Leggi tutto
Quello che lascia perplessi è soltanto questa incongruenza non secondaria, che tocca proprio chi tutti i lavoratori è titolato a rappresentare e tutelare.
ANCHE QUESTA è DIVENTATA UNA CASTA?
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